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Engagement e disengagement dei collaboratori

Engagement e disengagement dei collaboratori

 

Autore: Alessandra Mazzei

Editore: Franco Angeli, 2017,pp. 275, € 27.000

Genere: risultati di una ricerca  sull’engagement negli ambienti di lavoro

Chiave di lettura: capire quali sono le principali leve manageriali da mettere in atto per conoscere e gestire l’employee engagement

Frase chiave: “L’engagement dei collaboratori emerge con chiarezza come una delle leve, cruciali per la competizione basata sul contributo dei lavoratori. Non si tratta quindi di una moda ma di una sfida legata all’evoluzione sociale, economica, tecnologica e organizzativa”.


 

Da anni sentiamo le aziende ripetere “le persone sono la risorsa più importante”, eppure  secondo i dati della ricerca Gallup 2016, l’87% dei lavoratori si dichiara demotivato. Per molti l’azienda non rappresenta più una sicurezza, ne’ una fonte di identità. Lo scenario è denso di minacce, non ultimo la competizione di robot sempre  più  intelligenti, tuttavia alle persone si richiede un contributo di idee e creatività, coinvolgimento emotivo e disponibilità ad impegnarsi anche oltre il ruolo. Come riaccendere lo slancio e la dedizione al lavoro? Come rinforzare il senso di appartenenza e la voglia di dare di più senza aspettarsi benefici economici o opportunità di carriera in cambio? Occorre innescare una marcia in più nelle persone, attivare una spinta che viene dall’interno. Quella spinta ha oggi un nome, si chiama engagement. Non è l’ultima trovata della consulenza, né un restyling delle vecchie tecniche motivazionali: è una fonte di vantaggio competitivo che fa leva su l’autodeterminazione e sulla resilienza, sulla proattività e sulla self-leadership.  È una risorsa psicologica riconosciuta e documentata da un’ampia letteratura (purtroppo poco tradotta in Italia), un costrutto che misura i fattori che promuovono o frenano l’impegno delle persone ad offrire un contributo al successo dell’impresa che vada ben oltre le attese. Ed è una risorsa su cui investire per reggere le sfide di un mondo che cambia velocemente. Ma come?

Le ricerche internazionali sostengono che le organizzazioni che realizzano strategie e piani di employ engagement sistematici e continuativi ottengono risultati migliori in termini di salute organizzativa, performance e redditività. Avendone colto il valore, il governo del Regno Unito già da qualche anno sostiene il movimento Engaging for Success: una piattaforma che raccoglie e diffonde esperienze e strumenti sul tema. Nel nostro Paese interventi sistematici su l’employ engagement sono ancora episodici, spesso limitati a piani di welfare o ad interventi occasionali sul benessere organizzativo. Anche le ricerche scarseggiano. Per colmare questo vuoto l’Università IULM di Milano ha realizzato un’indagine (2016-2018) i cui risultati sono confluiti in Engagement e disengagement dei collaboratori, uno studio robusto ed esaustivo che aiuta chi ha il non facile compito di gestire Risorse Umane a capire quali bisogni e attese muovono oggi i collaboratori, cosa favorisce e cosa ostacola il loro impegno. L’indagine ha coinvolto 173 aziende italiane con più di 500 dipendenti incluse nella lista Medio Banca 2015, nell’ipotesi che “I programmi di employee engagement si ritrovano più facilmente in aziende con più alto numero di dipendenti”. L’indagine è arricchita da 13 case study (fra i quali spicca il caso ENI e Senofi)  e da 10 interviste a studiosi e consulenti esperti sul tema. Da questo robusto corpus di dati si è potuti giungere anzitutto ad una chiara definizione di engagement come “Un tratto personale di predisposizione all’entusiasmo che, quando interagisce con i fattori situazionali, determina uno stato psicologico persistente di assorbimento nel lavoro, dedizione emotiva e vigore, ovvero energia e resilienza”.

Circoscritto l’oggetto ricerca, vengono indicati i due comportamenti che più influiscono sull’attivazione dell’employee engagement: le voci e i silenzi, pro o contro l’azienda. Nonché i contesti in cui questi comportamenti si manifestano con maggior frequenza: 1) la comunicazione interna, quando è improntata alla trasparenza e alla libera espressione della voce dei collaboratori; 2) i sistemi di gestione HR, soprattutto quelli bottom up, quando sono in grado di promuovere partecipazione e persino critiche costruttive; 3) lo stile manageriale del leader, inclusivo, improntato all’equità, alla coerenza, alla partecipazione e ai processi decisionali.  Secondo la ricerca sono questi i tre principali contesti nei quali  l’engagement nasce e si sviluppa. Significativo è che “Nel 46% delle aziende intervistate la comunicazione interna e la gestione HR sono collocate nella stessa direzione e collaborano. Nel 40% delle aziende del campione le due funzioni sono collocate in funzioni diverse, ma collaborano in modo continuativo. Mentre nel restante 14% comunicazione interna e gestione HR lavorano in modo indipendente”. Questo spiega anche perché i case history presenti nel libro riguardano perlopiù progetti di comunicazione interna. L’employee engagement è un obiettivo cerniera fra queste due funzioni e la loro sinergia può conferire  motivazione e slancio ai collaboratori.

Ma come sono messe le nostre aziende in termini di engagement? Non bene. I collaboratori si sentono più ingaggiati dal contenuto del proprio lavoro anziché dall’azienda e dal suo brand. La comunicazione interna è giudicata rilevante per l’engagement, sia dai manager che dai collaboratori. Ma con una differenza: i capi prediligono la comunicazione mediata (email, intranet, ecc.), mentre i collaboratori danno più valore al dialogo faccia a faccia con leader e capi diretti. Riguardo alla gestione HR, i manager contano più su pratiche consolidate come il job positioning interno e le job rotation, mentre i collaboratori sono più interessati a strumenti come il retraining e lo smartworking che favoriscono l’autonomia nel lavoro e l’employability. Non stupisce che “I collaboratori più engaged sono quelli che lavorano in aziende piatte, orientate all’innovazione e ricorso limitato a lavoratori temporanei”. Dato preoccupante: “Le nuove generazioni di nativi digitali sono meno engaged”, forse hanno un legame debole con l’azienda e cercano soddisfazione in altre attività esterne, o forse il loro engage richiede altre leve ignote alle imprese. Fa riflettere anche la scoperta che nelle aziende di proprietà a maggioranza italiana le persone sono più disengaged. La spiegazione, secondo i ricercatori,  può risiedere nell’alta tolleranza per la distanza di potere connessa con la cultura manageriale nostrana che è poi un riflesso della cultura italiana. Dati allarmanti che svelano come le nostre aziende stanno perdendo l’opportunità di capitalizzare la loro risorsa più preziosa.

Molti gli stimoli offerti da questa ricerca, e ancora di più le domande che solleva. Un libro utile e necessario, solido e documentato, adatto a quanti cercano di orientarsi in un mondo dove ottenere sul lavoro la creatività e l’impegno delle persone diventa sempre più difficile se non sappiamo su cosa far leva, come e con quali strategie d’engagement.