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La forza della fragilità

La forza della fragilità

Autore: Brené Brown

Editore: Vallardi, 2016, pp.290, € 14.90

Genere: saggio di resilienza e psicologia positiva

Chiave di lettura: La consapevolezza della nostra vulnerabilità ci rende forti.

Frase chiave: “Lo scopo di questo libro è farvi vedere alla moviola le azioni del cadere e del rialzarsi, aiutarvi a prendere atto di tutte le scelte che vi si presentano in quei momenti di disagio e sofferenza e analizzare le conseguenze di tali scelte”.


 

Confessare le nostre vulnerabilità ci rende forti o più deboli? La risposta sembrerebbe scontata. Non per Brené Brown, docente di Scienze Sociali dell’Università di Houston che ha fatto della fragilità e dell’imperfezione il tema cardine de La forza della fragilità, sebbene siano argomenti già trattati nei precedenti, I doni dell’imperfezione e Osare in grande. Il suo messaggio ha avuto grande risonanza nelle conferenze TED dove si dice abbia totalizzato oltre 23 milioni di spettatori. Un successo che l’ha resa immediatamente popolare. Il merito riconosciuto a Brené è quello di aver demolito il culto della “persona tutta d’un pezzo”, restituendo alla “fragilità” diritto di cittadinanza nelle nostre vite. Il suo messaggio è un invito ad ignorare le imposizioni sociali, a rinnegare lo stress come status symbol e la produttività come misura del proprio valore, ad evitare che l’ansia diventi stile di vita, ad avere la forza di chiedere aiuto senza per questo sentirsi diminuiti, ad avere il coraggio di sbagliare e cadere, per poi rialzarsi più forti di prima. “Chi vive in maniera piena e autentica – scrive la Brown – vede nella vulnerabilità l’elemento catalizzatore del coraggio, della dedizione e della motivazione. La disponibilità ad essere vulnerabili è il valore fondamentale che accomuna tutte le persone che ho intervistate in oltre dodici anni di ricerche e che io ritengo autentiche e pienamente consapevoli. Costoro attribuiscono a tutte le loro soddisfazioni – dal successo professionale al matrimonio, ai momenti felici nel ruolo di genitori – al fatto di aver accettato di sentirsi vulnerabili”, all’aver gettato la maschera senza curarsi di ciò che pensano gli altri.

È un’ipotesi che nasce dai risultati di una ricerca su larga scala dove la Brown ha raccolto e analizzato le testimonianze di importanti manager, professori, artisti, famiglie comuni. E lo ha fatto con una metodologia sociologica originale, ma anche molto discussa: la grounded theory, un approccio qualitativo in voga nei primi anni settanta, caduto poi nell’oblio, riscoperto di recente grazie al successo dello storytelling come strumento di indagine e come moderna forma di comunicazione. La singolarità del metodo risiede nel fatto che non parte da un’ipotesi da verificare sul campo, come le ricerche quantitative, ma ricostruisce la “teoria sul campo”, osservando e ascoltando gli intervistati, mettendo insieme i loro racconti, trovando coerenze e schemi ricorrenti, riconoscendo nelle parole i modelli mentali e sociali che li sostengono. Sociologa qualitativa fin dagli esordi della sua carriera accademica, sebbene in passato assoggettata al culto del “ciò che non si può misurare non esiste”, oggi Brené Brown, si qualifica senza remore una “ricercatrice-narratrice” convinta che le informazioni più utili sui comportamenti umani vengano dall’osservazione diretta, dall’ascolto e dall’interpretazione delle esperienze vissute, più che dai rassicuranti modelli statistici.

La forza della fragilità, riflette quest’approccio: parte dalle storie, alcune delle quali  personali come quella in cui svela come abbia influito sulla sua fragilità la separazione dei genitori, per avvalorare il principio: “Essere vulnerabili non significa vincere o perdere, bensì avere il coraggio di scoprirsi e di essere visti per quel che si è, senza garanzie sui risultati, liberi dalle attese degli altri e dalla paura del fallimento”. Perché accettare la propria vulnerabilità ci rende vivi e autentici. Nel Manifesto sul valore della fragilità, pubblicato in appendice, la Brown scrive: “Non c’è minaccia più grande per i critici, i cinici e i seminatori di paure di coloro che sono disposti a cadere perché sanno come rialzarsi. Con le ginocchia escoriate e i cuori infranti, scegliamo di riconoscere i nostri vissuti difficili invece di nasconderci, stressarci e fingere. Quando neghiamo le nostre storie, queste ci definiscono. Rifuggendo la lotta non saremo mai liberi…Siamo noi gli autori delle nostre vite. Traiamo compassione dalla vergogna, coraggio dal fallimento, forza dalla fragilità”. Il suo è un invito è a fare i conti con le emozioni negative, a saperle esternare e condividere poiché la sofferenza non svanisce solo perché la si nega. In questo libro l’autrice illustra anche un metodo per guidarci attraverso le tre fasi del processo di crescita personale: Riconoscere (addentrarsi nei propri vissuti, prendere atto delle emozioni, integrarle anziché respingerle, perché esse fanno parte di noi, sono un tassello, per quanto talvolta doloroso, della nostra identità). Riflettere (è la fase in cui ci si pone domande sulle nostre “ruminazioni mentali” e sui film che ci facciamo su una data situazione e per capire che cambiamenti occorrono per vivere più pienamente e consapevolmente). Rivoluzionare (è la fase in cui si cambia il risultato della propria esperienza, basandosi su quanto si è appreso durante la riflessione, traendo conclusioni nuove e più coraggiose su ciò che si è stati). “Questo processo insegna ad accettare le storie delle nostre cadute, dei nostri insuccessi, delle nostre sofferenze per poterle integrare nel nostro essere e scrivere epiloghi nuovi e più coraggiosi”.

La forza della fragilità affascina per il coraggio di riaffermare il valore perduto del buon senso e perché promuove quel diritto alla vulnerabilità che solo potrà renderci liberi dalla schiavitù del consenso sociale. Un messaggio forte, soprattutto per le nuove generazioni, figlie di Facebook, disabituate al pensiero critico, disposte a tutto pur di totalizzare sul proprio profilo un record di “mi piace”. La forza della fragilità è una lettura piacevole, ma debole sul piano metodologico. Quando l’indagine s’addentra nei meandri della psiche umana, offre suggestioni illuminanti, ma senza mai scandagliare le profondità della mente umana, tanto da sollevare la domanda: tutto qui? Infondo il campo di indagine della Brown è la sociologia, sebbene sconfini sul terreno della psicologia. E in questo rimescolio di approcci, le sue argomentazioni rischiano di rimanere sul terreno della suggestione (per quanto accattivante) come quella divulgata da tanta letteratura sul self-help e sulla crescita personale. C’è un altro limite di cui il libro pago lo scotto. Se la scelta di privilegiare lo stile anedottico funziona nei 25 minuti di una conferenza TED, il risultato non è altrettanto efficace sulla pagina scritta. Ma allora come si spiega il successo del suo libro? Forse la fragilità dei contenuti paga perché un messaggio semplice, e tuttavia controtendenza, arriva a molti e appaga tanti. Sarà questa la sua vera forza?